X2 + Y2 = 1
Si erano parlati per la prima volta a
settembre, poco dopo l’inizio della seconda. Un banale commento su un
professore in comune (sì, lei era nell’altra sezione, quella – come succede
sempre – con le ragazze più carine…). E poi notizie, due battute in corridoio,
qualche parola in cortile, poi una confidenza all’uscita, due passi insieme,
lui bici alla mano, lei verso la fermata dell’autobus. Cose tristi o
simpatiche, cose buffe o serie… Lei era il cielo sereno di settembre, lui
invece quel cielo la spingeva a guardarlo perché, quando sorrideva, gli occhi
li alzava sempre un po’ verso l’alto, quasi a dirle: “I nostri anni valgono più
di questo mondo, terribile o bellissimo che sia”.
Cosa sono due amici? Due persone che si
scelgono, che possono parlare di tutto, dirsi tutto, gioire in silenzio o arrabbiarsi alzando la voce, ma
mai chiudere senza la certezza di ritrovarsi, fra due ore, due giorni o due
settimane. Beh… lei era LEI, lui era LUI, davvero – e solo – amici, confidenti
e un po’ complici, ma senza pensieri, secondi fini o altro, come il cielo, che
pensieri o secondi fini non ce li ha.
Ma adesso lui era seduto in camera, la
verifica di matematica da preparare, pensieri che correvano, lunedì era
passato, pochi minuti e sarebbe arrivato il martedì. Sabato, quel maledetto
sabato pomeriggio, si allontanava alla velocità della luce. Non si erano più
sentiti, tanto meno cercati; intravisti sì, inevitabile, ma cercando di
guardare altrove. Muti sull’argomento – almeno lui – con tutti, ma ormai la
conosceva abbastanza, anche lei si era tenuto tutto dentro.
Martedì mattina, la piazza. La scuola
quel giorno iniziava alle 10, meno male. La notte non aveva “portato
consiglio”, un bel niente: si era addormentato come un sasso, ed ora, alle 9,
eccolo lì, in piazza. Pensieri, tanti, troppi dal maledetto sabato pomeriggio,
che correvano di qua e di là, come la gente che si affrettava intorno a lui.
Come era stato possibile in un’ora
bruciare il suo sorriso?… Niente colonne sonore, niente atmosfere soffuse come
nei film, che ti entrano dentro e non te ne accorgi: si conoscono, si
sorridono, si baciano… e dopo dieci minuti uno dei due si alza dal letto. Tutto
scontato, tutto così, tutti fanno così. Tutto, tutti, tutte… Il cielo che prima
guardavano insieme, che avevano respirato in quell’autunno infinito, il cielo
sì è tutto, cioè, è sempre qualcosa in più. Non quel “tutto”, il “tutto subito”
e in fretta dei film.
Rallentò il passo. Perché non l’aveva
più cercata? Proprio come uno dei tanti idioti, aveva “fatto centro”, tante
grazie e “bye bye”? No, certo, non era così, era il contrario esatto di uno
così.
Cosa era? Cosa aveva fatto?... Senza
accorgersi, era passato dalla luce della piazza alle nove di mattina al buio
dietro un portone. Era entrato in chiesa, quella grande, che dava sulla piazza.
Da quanto tempo?… Chissà, ormai gli era scivolata via, col pranzetto al
ristorante dopo la Cresima, non era ostile a queste cose, solo che,
accontentati tutti, non ne aveva più sentito bisogno.
A sinistra, sopra un vecchio altare
polveroso, un crocifisso forse alto due metri, forse lì da trecento anni.
Quante preghiere aveva ascoltato?
Com’è possibile che una chiesa così
grande abbia tanti angoli bui?… Il cielo intuito, oltre quelle volte lassù, il
bisogno di chiudere gli occhi e guardarsi dentro, qua sotto. Di nuovo, senza
accorgersi, era arrivato a una luce smorta, in un bugigattolo un prete anziano,
stempiato, leggeva un libriccino. Regolare. Lo colpì però il gesto improvviso:
“Vuole confessarsi ?” , lo sportello che si chiudeva, una tendina viola che si
tirava e anche la luce smorta che si spegneva. Lo guidò il cigolio di uno
sportello che invece si apriva lì a sinistra, dietro una grata bucherellata dal
disegno di una croce. Comodo quel posto! Solo un inginocchiatoio di legno
scuro, come il resto di quello strano mobile. Si era – come si diceva? –
confessato qualche volta ai tempi, ma su panche di chiese, col prete seduto a
fianco oppure, se il prete voleva sgranchirsi le gambe, girando intorno a un
campetto di calcio.
“Da quanto tempo si è confessato?”
Esordì il prete un po’ brusco, poi rendendosene conto aggiunse: “Scusa, ti do
del tu? Mi sembri giovane”. Una decina di secondi di imbarazzato silenzio. Cosa
ci faceva lì in ginocchio?... Venne fuori da sola una frase, quasi la dicesse
un altro: “Ho peccato”. Riprese subito: “Sabato… No, scusi, ho quindici anni,
mi dia pure del tu. Credo di essermi confessato l’ultima volta per la Cresima,
tre, facciamo quattro anni fa.” Poi buttò fuori poche, spicce parole sul sabato
pomeriggio a casa di lei. Silenzio. Il sacerdote fece cadere le parole una ad
una: “Quanti anni ha la ragazza?” “Quindici, come me”. Poi aggiunse parole che
non pensava di voler dire: “La prima volta, per me sicuramente e, da quello che
ho visto (la voce si ruppe) anche per lei. Eravamo amici...”
Il prete capì che le ultime due parole
non erano un goffo tentativo di giustificazione, ma rimarcò il tempo verbale:
“Eravamo amici...Hai detto bene! Ora non lo siete più, e se anche fra dieci
anni mi darete la gioia, o la darete a qualcun altro, di benedire le vostre
nozze, non lo sarete mai più come siete stati fino a… tre giorni fa. Non si
torna indietro. Ma si può andare avanti. Quello che dopo tre, quattro anni ti
ha portato qui a scaricare quel peso potrebbe non essere la cosa peggiore che
ti sia capitata, che tu abbia fatto in questi anni… Ricordi altro?” “Beh...non
frequento molto la chiesa, non mi comporto sempre bene a casa, con gli amici...” “La mia domanda non era per
chiuderla in fretta. Se sei qui è perché...Qualcuno ti ci ha portato, il peso
grande che ti senti dentro dimostra che a quella ragazza ci tieni. Ingenui,
sciocchi, superficiali forse? Convinti che per volersi bene basta non
ingannarsi, non prendersi in giro…ed eccoti qua! Ora vorresti non averlo
fatto?...” “Certo! Anche se in quel momento...” “Basta così...Scusami, adesso
non parlo di me, parlo di tanti, di tante generazioni, né più né meno belli o
brutti di voi, focosi o tranquilli di voi. In casa eravamo cinque figli. I miei
genitori si sono promessi a sedici anni e si sono sposati a diciotto, quando
mio padre tornò dalla guerra. Due anni dopo ero in braccio a mia mamma. Ad ogni
fratellino o sorellina che nasceva, la casa si stringeva e la gioia aumentava.
E quei due, 30 anni e cinque figli, si guardavano ancora pieni di gratitudine.
Quel modo con cui si guardavano mi ha fatto dire un giorno al Signore: “Ora
lascia che il Tuo Servo vada… se questa cosa l’hai inventata Tu, voglio passare
la mia vita solo a ringraziarti e a
farti conoscere a tutti!” “Ma io cosa c’entro? - Riprese il ragazzo – Io ho
fatto quello che ho fatto alla mia amica, con che coraggio chiedo perdono?”
“Fallo subito! In ginocchio lo sei già, ottima posizione. Ora ripeti queste
parole, falle tue per davvero, magari non te le dimenticherai un’altra
volta...” Lo mandò poi a inginocchiarsi davanti al Crocifisso: “Quello che
guardavi mentre venivi qua...” Si fermò
un attimo. “Non è successo niente. Intendo
dire (se Dio mi concede di capire qualcosa) che non c’è stato...un concepimento.
Non vi chiede tutto subito. Adesso vi chiede quanto spazio date l’uno all’altra
e anche a Lui. Lei... Proponile quello che hai fatto tu oggi, fallo in nome
dell’amicizia e con la confidenza che avete avuto. Da soli non ce la fate,
niente illusioni: meglio allora piantarvi subito...e fra due mesi magari state nelle braccia di
qualcun altro. Il vostro peccato è come quello di tanti: superficialità. Non
orientare la vita a Chi ve l’ha data.
Vi propongo pazzie: vedere e sentire,
con la testa e col cuore. Domenica, ti chiedo, vi chiedo, non una Messa fra
tante, ma la Liturgia che celebrano a due passi da qui gli armeni cattolici.
Due ore, non capirete una sola parola, ma vedrete e sentirete volare angeli,
santi, vergini e martiri, al Sacrificio di Chi, senza colpa, proprio la nostra
povera carne ha preso e ha donato sulla Croce, per renderla di nuovo capace di
Dio.
Poi scegliete voi, se tornare tutte le
domeniche lì o andare altrove...
Ma tu, per andare incontro a lei, esci
in pigiama o con la camicia buona?!”
Le dieci. Il cuore all’impazzata.
All’ingresso, niente. L’ora di matematica, l’ultima prima della verifica.
Incredibile, la seguì bene, lucidamente. Non era cinismo, era… Grazia di Dio.
L’intervallo: un tuffo al cuore, lei era in cortile, con le sue compagne, fra
indice e medio un mozzicone, la prima sigaretta che le avesse mai visto in
mano, muta, lo sguardo a terra. Non poteva parlarle ora. La fine. Niente. La
lasciò andare sola verso la fermata. Il sole ora illuminava la piazza in un
altro modo, come logico: la luce non veniva più dalla parte della casa di lei,
ma sembrava indicargliela. Via questi pensieri, prima che cominciassero a
girare da tutte le parti. A casa riuscì a mangiare qualcosa e ad aprire il
quaderno di matematica: tutto qui dunque quello che da settimane spaventava i
suoi compagni? Riguardò gli ultimi passaggi di algebra: che c’è alla fine? Una
variabile non dipende più dall’altra, una di qua, una di là, sembrano
indipendenti, ma moltiplicate per se stesse e sommate generano il cerchio
perfetto. Chiuse il quaderno e lo ributtò nella borsa.
In quel momento lei pensava proprio a
quella borsa, quel tascapane verde, e al tintinnio della sua cinghia che,
quando sentiva alle spalle all’uscita da scuola, la faceva girare e sfoderare
il suo sorriso-unico-al-mondo. Di quel sorriso le era rimasto sì e no la metà,
anzi ora le si era spento proprio del tutto.
Un quarto d’ora. Sulla scrivania libri
chiusi. Ne aprì uno a caso, una pagina a caso. Andò alla finestra. Sentiva il
bisogno di quell’avanzo di sigaretta che la sua compagna, non avendo di meglio,
le aveva offerto nell’intervallo in cortile. Niente. Fuori solo rami secchi e
quei passeri idioti che non avevano capito se facesse ancora freddo o già
caldo. Gennaio ormai cercava febbraio e le sue stupide feste di Carnevale, e
poi la primavera… Già vedeva il verde, il verde vuoto intorno a lei, vuoto come
lei. Lo sguardo scese dai rami spogli al parchetto spelacchiato sotto casa. Non
è possibile: cosa ci fa qua lui, su quella panchina, lo sguardo a terra?
“Su,
guarda su, guarda questa finestra, l’altro giorno hai fatto le scale di corsa,
no? Cosa stai pensando? Vuoi salire a farti un altro giro? No caro, la giostra
è chiusa! Non si tratta così la gente, ci sono stata, non è stato poi così
carino come forse per te, se ci sono arrivata però non sono una scema usa e
getta. Una settimana fa parlavamo di queste cose, di chi cerca solo questo
nell’altro sesso… poi ci siamo cascati come tutti. Per poi ignorarmi fino a
oggi. Cosa sei venuto a fare qua sotto?”
Quasi le cadde un velo dagli occhi
tristi: lui la stava guardando, come se ascoltasse i suoi pensieri: da quanto
la stava guardando dritto in faccia, capendo perfettamente che lei guardava, ma
non lo vedeva? Poi si videro, cioè, si guardarono e si videro. E chissà perché,
il suo sorriso-unico-al-mondo venne a galla. Allora capì. Lui non sarebbe
salito. Non con lei a casa da sola. Le si spalancarono davvero gli occhi, le si
aprì il cuore. E anche la mente, tanto che non si precipitò giù come “una scema
usa e getta”, scese le scale tranquilla, senza dimenticarsi la giacca blu e la
borsa di scuola, contenente esattamente le cose da studiare per domani. Si
salutarono. Finalmente, dopo quattro giorni. Niente effusioni. Due buoni amici
hanno sempre cose serie e simpatiche di cui parlare.
Ne parlarono. Oggi ne avevano ancora di più.
Ne parlarono, da lì in poi, quasi tutti
i giorni, per tutta la vita. E quando fu l’ora, quando le loro anime avevano
ormai messo tutto in comune, capirono senza una parola in più che era venuto il
tempo non di prendersi, ma di donarsi. E di donare. Non benedisse le nozze il
vecchio prete, era in cielo ormai… ma ne trovarono un altro: quando è ora, lo
trovi sempre.
Vi elevate al quadrato, e insieme fate
Uno.